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Via dalla gabbia dorata

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Via dalla gabbia dorata

La Svizzera è bella, ricca, sicura, confortevole, ma molte persone decidono di lasciarla. Alcuni la trovano noiosa o addirittura claustrofobica. Vi presentiamo le storie di sette svizzeri che hanno deciso di tentare la fortuna altrove, fuggendo dalla «gabbia dorata» o perlomeno lasciandosi alle spalle alcuni dei comfort elvetici.
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Niklaus Mueller

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Mueller afferma di non avere subito uno shock culturale arrivando in Cina.
Mueller afferma di non avere subito uno shock culturale arrivando in Cina.
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La "gabbia d'oro" è in realtà un lusso: le sue "sbarre” rappresentano un trampolino di lancio e una rete di sicurezza che aiutano le persone ambiziose a spiccare il volo. Questa la visione di un giovane svizzero che studia a Shanghai, in Cina.

Per Niklaus Mueller, la Cina è il posto dove bisogna essere. Vi è tornato a vivere per la terza volta in cinque anni. Come molti della sua generazione in Svizzera, il 32enne desidera esplorare il mondo e fare uso delle esperienze raccolte. Rispetto ad altri, ha però deciso di nuotare un po’ controcorrente.

"Un sacco di miei amici volevano andare verso Occidente. Io invece ero attratto dall’Oriente. La Cina mi affascina e, anche se vi avevo già trascorso più di due anni, sentivo il bisogno di approfondire la mia conoscenza di questo paese e del suo posto nell'economia globale”, spiega Niklaus Mueller.

Molto ben vestito, Mueller ha preparato degli appunti per l'intervista: sembra un uomo che intraprende le cose con cura e si organizza di conseguenza. Il suo primo assaggio della Cina lo ha fatto durante uno stage presso lo studio legale internazionale CMS, nel 2011. L’anno seguente ha dovuto rientrare a Zurigo per l'esame di avvocato, ma la Cina è rimasta nella sua mente.

"Mi ero detto che dovevo trovare il modo per tornare in Cina", ricorda Mueller. CMS gli ha poi offerto la possibilità di dare il via alla sua carriera a Shanghai, quale associato presso lo studio legale. Un’attività che ha svolto per due anni.

Partendo dal principio che non si può rimanere per sempre nel luogo in cui si è già lavorato come stagista, Mueller si è trasferito di nuovo a Zurigo presso il Credit Suisse. Un anno dopo, però, è stato di nuovo attratto dalla Cina: così nel 2015 si è iscritto al programma Master of Business Administration (MBA) presso la China Europe International Business School (CEIBS).

"Sono molto interessato all’imprenditoria e all'innovazione e, dati gli sviluppi attuali in Cina, penso che sia uno dei luoghi più interessanti in quest’ambito", sottolinea Mueller, originario di Berna.

Il giovane espatriato nutre inoltre un grande interesse nei confronti della cultura, della storia e della lingua cinese, in particolare, il mandarino.

"Sembra che ogni carattere della scrittura cinese abbia una propria storia alle spalle. Si possono memorizzare i caratteri cercando di capire la loro storia”, indica Mueller. Finora, nei suoi corsi di cinese, ha già raggiunto il quarto livello – su sei – e si sta preparando per il quinto, che richiede la conoscenza di 2500 caratteri.
Mueller afferma di non avere subito uno shock culturale arrivando in Cina.
Mueller afferma di non avere subito uno shock culturale arrivando in Cina.
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Parlando di caratteri: Mueller è indubbiamente un tipo ambizioso. Il suo carattere lo ha spinto ad andare oltre la "gabbia dorata" della Svizzera.

"Posso capire che la gente si senta una po’ limitata in Svizzera. Da noi è difficile fare un cambiamento, esistono chiare norme di comportamento. Non è facile evaderle”, rileva Mueller. A suo avviso, gli svizzeri dovrebbero però essere grati per la stabilità politica ed economica del paese.

"Questo ci aiuta. Abbiamo il lusso di avventurarci all'estero e, se non funziona, possiamo tornare in Svizzera, dove ci attende una situazione confortevole. Sono quasi sicuro di poter trovare un lavoro entro un paio di mesi, tornando a casa”, sottolinea lo svizzero espatriato. “Questo ci toglie un mucchio di pressione, quando si va a vivere in un altro paese".

Possiamo approfittare di una "rete di sicurezza d'oro", qualcosa di cui non tutti possono godere, aggiunge Mueller, citando l'esempio di un collega spagnolo, che ha dovuto rimanere in Cina, perché non riusciva a trovare un lavoro in Spagna.

Ottimismo e apertura mentale

La Cina sta beneficiando di un periodo di crescente prosperità e di ottimi collegamenti con le altre nazioni.

"Le aziende cinesi sono presenti in tutta Europa e nel resto del mondo. L'accordo di libero scambio, siglato tra la Svizzera e la Cina nel 2014, offre interessanti opportunità", osserva Mueller. Mentre la Svizzera si posiziona tra i ranghi più alti nel campo dell’innovazione, anche la Cina si distingue sempre più per il suo spirito imprenditoriale.

"L'innovazione è una cosa difficile. Finora si è detto che la Cina non fa nient’altro che copiare. Ma, se si guarda cosa sta succedendo, si può notare che la Cina ha ormai acquisito una posizione di leadership in alcuni settori, come l'e-commerce e le “fintech”. In Cina vi sono molte aziende nel settore tecnologico che equivalgono a quelle degli Stati uniti”, afferma Mueller, secondo il quale le cinesi Alibaba, Taobao, Tencent WeChat e Didi Kuaidi possono essere paragonate alle americane eBay, WhatsApp e Uber.

Lo svizzero espatriato si dice impressionato dalle soluzioni tecnologiche cinesi e cita l’esempio delle app per pagamenti, diffuse in Cina prima ancora che arrivassero in Svizzera. Ai suoi occhi, i progressi compiuti dai cinesi sono dovuti in buona parte anche al loro ottimismo e alla loro apertura mentale.

"I cinesi si ritrovano a loro agio nell'incertezza e nell'ambiguità, mentre noi svizzeri vogliamo definire tutti i dettagli. Non ci piace molto che ci siano troppe questioni aperte", dice Mueller, che ha già sperimentato questo contrasto durante il lavoro condotto presso lo studio legale a Shanghai.

Aspetti spiacevoli

Alla domanda su cosa non gli piace della Cina, Mueller riflette attentamente prima di rispondere. Vivendo in un paese in cui molte notizie vengono censurate, non vuole rischiare di offendere qualcuno.

"Ci sono grandi masse di persone, strade affollate e metropolitane intasate. Ma riesco a sopportare tutto questo, perché non si può cambiare", dichiara il giurista, mostrando un tratto di autocensura e di diplomazia che sicuramente lo aiuteranno ad andare avanti negli affari.

Mueller intravede dei margini di miglioramento nella politica ambientale. Ogni mattina, consulta un’applicazione che mostra il livello di inquinamento.

"Troppo spesso, la qualità dell'aria è pessima. A volte si riesce a malapena a vedere più di 100 metri dinnanzi a sé. In inverno è peggio che in estate. Ci sono giorni in cui non si possono eseguire tutte le attività esterne a causa della pessima qualità dell'aria e altri giorni in cui si preferisce limitarsi e rimanere all’interno”, si lamenta Mueller, che sente la mancanza della natura in Svizzera.

"Qui si nota il degrado della natura. L’enorme crescita economica ha chiaramente il suo prezzo. Ma ci sono anche segnali positivi, basti pensare agli importanti investimenti cinesi nelle energie rinnovabili e i recenti impegni assunti dalla Cina alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, tenuta nel 2015 a Parigi".

Il benessere degli animali è un altro problema che turba Mueller. Mentre applaude l'uso di ogni parte commestibile degli animali – ad esempio per l’insalata di orecchie di maiale o le zampe fritte di pollo – si sente a disagio di fronte al modo con il quale vengono trattati gli animali in Cina.

"Soprattutto il modo con cui li allevano e li preparano. Vi sono cose inaccettabili”, aggiunge lo svizzero espatriato, menzionando animali stipati in gabbie anguste.

Futuro roseo?

In una Shanghai molto cosmopolita, Mueller non ha subito uno shock culturale estremo – anche se incontra delle difficoltà a trovare scarpe di taglia 45. Si dice un po’ sorpreso della mania dei cinesi di avere una pelle molto bianca.

"Sapevo che le donne cinesi ci tengono molto e che vi sono quindi un sacco di creme sbiancanti in vendita. Ma non sapevo che ve ne fossero così tante anche per gli uomini e che anche per loro fosse così importante”, osserva Mueller, ridendo.

Lozioni sbiancanti o meno, a suo avviso, il futuro per i cinesi appare alquanto roseo. "Sono ottimisti. Sanno che questo è il loro tempo - che hanno un futuro luminoso dal profilo economico. È incredibile essere qui e poter sperimentare tutto questo di prima mano".

E in che modo uno svizzero cerca di adattarsi a questa situazione? "Se si vuole vivere in Cina, bisogna essere disposti a immergersi nella cultura locale. Per questo motivo è importante cercare di comprendere la civiltà e la storia della Cina, come pure imparare la lingua cinese”.

Mueller rileva tuttavia che Shanghai è una città molto internazionale, ben diversa da altri luoghi che ha visitato nelle campagne cinesi. "Shanghai è un po' una bolla, non è tipica della Cina. È piuttosto una metropoli cosmopolita, un ‘melting pot’ culturale".

Mueller dovrebbe concludere il suo programma MBA nel 2017. Dopo di che non sa ancora cosa fare. È una persona curiosa, mobile e dispone di capacità che potrebbero portarlo un po' ovunque.
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Le sorelle Blaettler

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Un po' di divertimento sulla spiaggia prima di tornare a casa a fare i compiti.
Un po' di divertimento sulla spiaggia prima di tornare a casa a fare i compiti.
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Le sorelle Daniela e Marina Blaettler hanno lasciato una Svizzera diventata troppo stretta per i grandi spazi africani. Hanno trovato quello che cercavano grazie a dei pescatori in Kenya e a delle donne masai in Tanzania.

«Non ne potevo più di vivere in Svizzera. Mi sentivo come se fossi sempre sotto controllo», afferma Daniela Blaettler, 52 anni e cresciuta a Lugano. Oggi vive sull’isola di Lamu, nel nord del Kenya.

Sua padre era originario di Airolo, nel cantone Ticino, e sua madre di Pontresina, nei Grigioni. All’età di 19 anni ha lasciato la sua amata famiglia per trasferirsi a St. Tropez, in Francia. Malgrado i forti legami coi genitori e coi tre fratelli e sorelle, il desiderio di allontanarsi dal suo paese natio era troppo forte.

«La Svizzera è molto bella, ma avevo bisogno di qualcosa di più della sola bellezza», afferma. «Ero alla ricerca di sfide, poiché la vita per un giovane era troppo facile».

Anche St. Tropez e il suo glamour stanno però stretti a Daniela. Dopo sette anni trascorsi in Costa Azzurra vendendo case e lavorando nel negozio di un’amica, inizia a scalpitare. La svolta arriva mentre sfoglia un numero della rivista Paris Match dal parrucchiere. I suoi occhi si fermano su una foto di persone sul dorso di un elefante.

«Ho sempre sognato di avere un elefante in giardino invece del cane», ci dice. «Quando ho visto questa immagine il mio sogno si è risvegliato. Ero stanca di St. Tropez ed ero pronta al cambiamento».

Dopo alcune ricerche, scopre che la foto è stata scattata in un centro di riabilitazione per elefanti in Botswana. Scrive subito una lettera al proprietario. La risposta le arriva un anno dopo: il proprietario la invita a lavorare con gli elefanti nel campo. Daniela inizia così una nuova avventura.

«Giravamo dei film, facevamo delle pubblicità e organizzavamo dei safari per vedere gli elefanti», spiega. «Il progetto era di salvare elefanti che avevano dei problemi negli zoo del mondo intero e rilasciarli nella natura in Africa».

La sorella maggiore

Qualche anno dopo, la sorella di Daniela, Marina Oliver Blaettler, sogna pure di fuggire dalla Svizzera. Contrariamente alla sorella minore, i suoi desideri non erano quelli di un’adolescente alla ricerca di nuovi orizzonti. Quando scatta la scintilla, ha infatti già 34 anni, lavora per una società informatica e ha una vita confortevole.

«Un mattino mi sono svegliata e ho deciso che non era qualcosa che volevo fare per il resto della mia vita», racconta oggi, all’età di 53 anni. «Avevo l’impressione di avere le mani legate, la Svizzera era troppo piccola per me».

Marina vuole viaggiare per il mondo. La sua idea è di fare tappa in Africa per incontrare Daniela, poi di continuare il suo periplo.

«Io e mia sorella siamo molto simili, abbiamo lo stesso cuore», dice Daniela.

All’inizio, la decisione della sorella minore di lasciare l’Europa è stato un po’ uno shock per la famiglia. L’hanno comunque sostenuta.

«I miei genitori non mi hanno mai dato dei soldi. Mi hanno però sempre detto che sarei rimasta nei loro cuori e che ci sarebbe sempre stata una camera per me nella loro casa. Ciò mi ha dato la forza di partire», sottolinea Daniela.

«Mia madre probabilmente avrebbe fatto la stessa cosa se fosse stata della nostra generazione. Mio padre era invece molto svizzero, ma capiva il nostro bisogno di esplorare il mondo», afferma Marina.

Il fratello di Marina e Daniela ha pure lasciato il Ticino, ma per una destinazione meno esotica, la Spagna. L’altra sorella vive invece tuttora a Lugano ed è felice dove si trova. «Abita a 200 metri dalla casa di mia madre. Ha un marito, tre figli e un cane. Non tutti devono partire».
Un po' di divertimento sulla spiaggia prima di tornare a casa a fare i compiti.
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In partenza per lo shopping con il suo braccio destro Shueb.
In partenza per lo shopping con il suo braccio destro Shueb.
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Quando Marina arriva in Botswana per trovare la sorella, rimane stregata dal luogo. «Appena ho messo piede in Africa, il profumo della terra o qualcosa di questo genere mi ha fatto capire che sarei rimasta qui a lungo», ricorda.

Mentre Daniela è impegnata con gli elefanti, a Marina viene offerto un lavoro nel centro. Un’opportunità che non può rifiutare.

«Sono tornata in Svizzera, ho venduto la mia casa, l’automobile e tutto il resto e sono tornata in Botswana».

Il lavoro nel centro occupa le giornate delle due sorelle, ma il soggiorno in Botswana non si protrae in eterno.

Durante un viaggio al Cairo per pianificare il trasporto di due elefanti via terra, Marina è colpita dall’estrema povertà che incontra.

«Vedere così tanta gente sui bordi delle strade mi ha fatto capire che non potevo giustificare il fatto di spendere così tanti soldi per degli elefanti, quando le priorità del continente sono altre», afferma.

Daniela ha il suo momento di disillusione qualche anno dopo, quando uno dei suoi elefanti preferiti è messo in catene.

«Ho detto loro che sarei tornata solo se l’elefante fosse stato rilasciato nella natura. Due anni dopo sono in effetti tornata per assistere al suo rilascio. L’ho seguito per tre mesi per assicurarmi che tutto andasse bene, poi sono ritornata in Kenya dove ho iniziato una nuova vita», racconta.

Nuova partenza

Daniela si innamora di un biologo marino inglese incontrato a Nairobi. Ma la storia non dura.

«È un uomo meraviglioso. Ho ancora il cuore infranto». Per riprendersi dalla rottura, accetta un incarico di andare a fotografare dei pescatori sull’isola keniana di Lamu. Il posto e la comunità che ci vive l’affascinano immediatamente.

«Lamu è il luogo più bello della terra. Non vi sono automobili, discoteche, casinò. È ancora immacolato. Qui è un po’ come se fossi sempre innamorata».

Per i pescatori locali, la vita non è però rose e fiori. La concorrenza dei pescherecci a strascico e il mare difficile durante la stagione delle piogge rendono l’esistenza difficile. Un pescatore, Ali Lamu, l’avvicina per chiederle un lavoro. Pensa a come potrebbe aiutarlo e la lampadina si accende.

«Il materiale che usavano per le loro vele mi intrigava. Su una di esse ho disegnato un grande cuore, ho scritto la frase ‘Love Again Whatever Forever’ (Ancora amore, per sempre e comunque) e l’ho incorniciata».

Domanda poi a un’amica di esporla nel suo negozio. Qualche ora dopo, la vela viene venduta per 180 euro. Con l’aiuto del pescatore, Daniela ne fabbrica diverse altre e presto ha abbastanza successo per avviare un’attività artistica, riciclando le vele delle barche.

Battezza il marchio Alilamu, dal nome del pescatore. Oggi, la sua azienda dà lavoro a 30 persone, tra cui Ali Lamu, che è diventato il direttore.

«Ali è il mio pilastro, il mio amico, il mio fratello e il mio più grande sostenitore», spiega Daniela.

Anche la vita di Ali è cambiata da quando ha avvicinato Daniela per domandarle un lavoro. «Ho costruito una piccola casa per la mia famiglia e posso mandare i miei figli a scuola. Quando ero pescatore, invece, affittavo una camera e mi dimenavo a stento per pagarla», afferma.
In partenza per lo shopping con il suo braccio destro Shueb.
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Discussioni sul design delle borse nel nuovo atelier a Mkuru.
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Arte della Tanzania

Come sua sorella, anche Marina ritrova una certa stabilità dopo aver lasciato il centro per gli elefanti in Botswana. Arriva in Tanzania per una vacanza e decide di non partire più.

«Mi piace soprattutto la diversità del paese, con le sue montagne, la savana, le foreste. Il Botswana è bello, ma è completamente piatto».

Si innamora e convola a nozze con un profondo conoscitore dell’Africa, Paul Oliver, e assieme a lui dirige con successo un campo safari a Arusha, nel nord del paese. Tuttavia, il lavoro non le dà piena soddisfazione. Un’altra opportunità le si presenta grazie a un’amica, che amministra una ONG a Milano.

«Mi ha chiesto se fossi interessata a collaborare per un progetto che aiutava le donne masai ad avere un’entrata supplementare con la vendita dei loro gioielli in perline. Ho accettato il lavoro a condizione che un giorno il progetto diventasse economicamente indipendente».

Due anni dopo in effetti il progetto è trasformato in una società chiamata Tanzania Masai Women Art, con circa 200 donne masai che vi collaborano. Ogni donna può tenere per sé il 10% di quanto guadagna il suo gruppo, per effettuare dei lavori, come riparare una capanna.

«Il 99% delle donne sono analfabete e vivono in una situazione di povertà. Non posso trasformare radicalmente la loro vita, ma almeno quello che guadagnano con il loro artigianato aumenta la loro autostima».

Le donne masai devono raccogliere la legna, andare a prendere l’acqua, cucinare per tutta la famiglia e occuparsi del bestiame. La loro opinione generalmente non è presa in considerazione quando la comunità deve prendere delle decisioni e spesso sono vittime di abusi fisici.

C’è voluto un anno a Marina per conquistare la loro fiducia. Spera che un giorno le donne masai possano gestire da sole il loro commercio. Marina potrà così dedicarsi a un altro progetto che le sta a cuore, un centro che offre terapia equina a ragazzi disabili.

«Marina ha un carattere forte. Adora ciò che fa e riesce ad incoraggiare gli altri. Le donne sono contente quando ricevono ordini da lei», afferma Margaret Gabriel, una donna masai che era responsabile delle vendite in negozio fino all’aprile 2016.

La Svizzera? Troppe regole

Il paese natio è ben lontano dalle preoccupazioni delle due sorelle, anche se ritornano in Svizzera una volta all’anno.

«Quando sono in Svizzera, ho l’impressione di essere in una località di villeggiatura. Tutto è così pulito e organizzato», dice Daniela.

Durante le vacanze passa il suo tempo a camminare in montagna, a fare compere nella catena di supermercati Migros e a mangiare cibo svizzero.

«Mi sento più swahili che svizzera», afferma Daniela. «Apprezzo quando la gente arriva in orario, ma se non succede non ne faccio un dramma».

Daniela si è integrata nella comunità di Lamu e ha adottato quattro bambini del posto, di età compresa tra 3 e 18 anni. È anche stata ribattezzata con il nome locale di Khalila.

«Lamu è un posto molto bello e pacifico, un toccasana per il cuore e per l’anima. Mi sveglio, cammino sulla spiaggia per ammirare l’alba o il tramonto. Nello stesso tempo, posso anche prendere il treno e andare in una grande città per affari».

Anche se il cioccolato le manca, Daniela afferma che non potrebbe più vivere in Svizzera, poiché si sente troppo sotto controllo.

«Vi sono troppe insegne che ti dicono cosa devi o cosa non devi fare. A Lamu siamo invece così liberi, malgrado i pericoli che ci attorniano».

Una minaccia che incombe sulla regione è il gruppo Al-Shaabab, autore di diversi attacchi non distante da Lamu. La Somalia non è così lontana.

«Sull’isola non vi sono stati attacchi, ma si vedono le forze di sicurezza un po’ ovunque, sulle strade, sulle spiagge e nei grandi alberghi», afferma Ali Lamu.

Il suo amico e partner d’affari è preoccupato pure per le responsabilità che Daniela ha indossato, in particolare l’adozione di quattro bambini.

Una capanna per tetto

Anche sua sorella Marina è distante anni luce da una tipica esistenza svizzera. Vive in una tenda stile mongolo nella fattoria di un’amica, con un cavallo, due cani e un asino.

«La Svizzera mi fa sentire claustrofobica. Adoro questi spazi aperti: le montagne, le foreste, la savana». Le giornate di Marina sono raramente dettate da un’agenda precisa e – come nella vita di tutti gli abitanti della Tanzania – le sorprese sono all’ordine del giorno. Ha comunque alcuni punti fermi nel suo quotidiano.

«Inizio la giornata con cavalcata, poi vado in negozio e in ufficio ad Arusha. Ritorno a casa la sera e faccio una lunga passeggiata col cane, guardo il tramonto e a volte esco a bere o a mangiare qualcosa con gli amici».

Rispetto al Botswana, nei paraggi non vi sono animali pericolosi come leoni o leopardi. Solo piccoli predatori, come iene o sciacalli. Marina può passeggiare senza preoccupazioni. Oltre agli animali, nella zona vivono molti masai, le cui capanne punteggiano la campagna circostante. I fine settimana, inforca la sua bicicletta e fa visita ai villaggi masai, discutendo con la gente sulle possibilità di avere entrate supplementari.

L’Africa non è però solo una cartolina

«Molti mi invidiano perché vivo in Africa, ma le cose possono essere difficili», afferma. «C’è un sacco di burocrazia e di corruzione».

È separata dal marito ed è spesso sola, eccetto qualche amico. Tuttavia non pensa di poter ritornare in Svizzera.

«La Svizzera è una piccola isola e ciò si vede dal modo in cui la gente pensa». Malgrado tutto, la neve, lo sci e il senso organizzativo svizzero le mancano. «È difficile fare dei prodotti per il ‘primo’ mondo con le condizioni del terzo mondo. A volte la lentezza dei tanzaniani può essere frustrante», confessa.

Un futuro fragile?

La sua ex collega Margaret Gabriel è inquieta per lei. Ritiene che Marina lavori troppo e si preoccupa anche per il futuro dell’azienda nella quale la ticinese ha investito così tanto.

«Deve pensare alla prossima generazione, poiché certe donne cominciano ad essere anziane e non vedono più abbastanza bene per infilare le perline, spiega. Deve lanciare dei progetti con delle giovani per assicurare il futuro dell’impresa».

Malgrado il grosso carico di lavoro che pesa sulle sue spalle e la responsabilità per 200 donne masai, Marina non nutre rimpianti: «Vivo dei miei sogni. Ho tutto il necessario e non ho bisogno di molto denaro. Sono veramente in pace. Era questo il mio obiettivo nella vita».

Sua sorella Daniela ha qualche consiglio da dare ai compatrioti svizzeri che sognano di partire un giorno dal loro paese. «I miei amici mi considerano coraggiosa, ma non capisco perché. È più coraggioso rimanere in Svizzera per il resto della vita. Ascoltate il vostro cuore, non abbiate timori o preoccupazioni per il denaro. Se avete un cuore aperto, tutto è possibile».
Discussioni sul design delle borse nel nuovo atelier a Mkuru.
Discussioni sul design delle borse nel nuovo atelier a Mkuru.
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Silvia Brugger

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Ogni lunedì mattina, la squadra di vendita s'incontra nell'ufficio per pianificare le attività della settimana.
Ogni lunedì mattina, la squadra di vendita s'incontra nell'ufficio per pianificare le attività della settimana.
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Uno scambio con la prima svizzera che ha partecipato alla gara Iditarod in Alaska

"Caro Philipp,

ti invio un breve resoconto su di me. È la prima volta che raccolgo e scrivo queste informazioni e non sono nemmeno sicura da dove iniziare".

Silvia Brugger esordisce così il suo testo, simile a una lettera, in cui narra la storia della sua emigrazione. Il contatto tra Silvia è me si è creato online, come oggi avviene spesso, questa volta tramite Facebook.

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Sono stato molto fortunato che Silvia abbia risposto al mio annuncio su Facebook. È stata una ex compagna della scuola di commercio e trasporti di Lucerna a segnalarle il mio post. Silvia ha poi fatto quello che oggi si chiama «user generated content», ha scritto direttamente da sola la sua storia. Mi sono unicamente permesso di fare qualche domanda in più mentre narrava e alla fine del suo racconto.

Silvia inizia la sua storia così:

Sono nata nel 1974 a Cham nel canton Zugo dove sono anche cresciuta. Ho quattro fratelli e sorelle, Max è il mio fratello gemello. Gli altri tre hanno quattro e otto anni più di me e le mie sorelle sono anche loro gemelle.

Già da piccola e da adolescente ho viaggiato tanto in Europa. I miei nonni vivevano nella Germania del Nord e la mia famiglia aveva dei cavalli islandesi con cui le mie sorelle e io facevamo tornei di equitazione all’estero quasi ogni anno.

Dopo aver concluso la scuola dell’obbligo ho seguito la scuola di commercio di Lucerna con l’idea di poi candidarmi presso Swissair. Ma poi mi ha preso la voglia di avventura. Dopo un soggiorno linguistico a Perth, ho viaggiato in lungo e in largo per l’Australia con un’amica. Avevamo appena 18 anni.

Poi è arrivato il momento di concentrarmi sulla carriera. Dopo un tirocinio di commercio nel Carlton Elite Hotel di Zurigo ho iniziato a lavorare stagionalmente nel Badrutt Palace di S. Moritz.

Quali sono stati gli insegnamenti del Palace di St. Moritz?

Fammi pensare. È tutto un po’ sfuocato, probabilmente perché uscivo quasi ogni sera e consumavo decisamente troppa birra :-)

Ma direi che in generale, dalla Svizzera ho imparato quello che qui in America manca un po’: la disciplina personale e la responsabilità. Entrambe sono fondamentali per avere successo nella vita professionale.

Per fare un esempio, il business delle cause legali negli Stati Uniti mi fa andare su tutte le furie. Uno va alla McDonald's e si prende un caffè, si brucia la lingua e poi fa causa alla catena di fast food e riceve pure un milione di dollari di risarcimento???? Sono cose che non riesco a capire. Nel frattempo, queste situazioni sono diventate normali, nessuno pensa più al buon senso.

Nel 1997, durante un viaggio in Canada ho conosciuto la famiglia Willis di Anchorage, non solo avevano dei cavalli islandesi ma anche dei cani da slitta. Bernie e Jeannette Willis mi hanno invitata per un paio di settimane da loro in Alaska: era la prima volta che ci andavo.

Dopo un’ultima stagione al Palace Hotel, nel 1999 sono emigrata in Alaska e lo stesso anno Andy, il figlio maggiore di Bernie e Jeannette, e io ci siamo sposati.

Nel 2001, Andy e io abbiamo messo in piedi il nostro lodge. Dopo aver acquistato un terreno con degli edifici a un’asta, per un anno ci siamo occupati di pulire, ordinare, riparare e rinnovare.

Non avrei mai pensato che il mio sogno da piccola di avere il mio lodge per la pesca e la caccia sarebbe diventato realtà. La mia vita era molto avventurosa: nel nostro lodge pescavamo tutta l’estate, in autunno e in primavera ci dedicavamo alla caccia e d’inverno allenavamo i cani da slitta.

Andy e la sua famiglia erano molto attivi nella corsa di cani da slitta Iditarod, famosa in tutto il mondo. Tutti gli uomini della famiglia avevano partecipato alla gara in anni diversi. Nel 2007 e nel 2008, la nostra muta di cani era molto buona e toccava a me compire la distanza di 1000 miglia con i cani e la slitta. Sono stata la prima svizzera a partecipare all’Iditarod.
Ogni lunedì mattina, la squadra di vendita s'incontra nell'ufficio per pianificare le attività della settimana.
Ogni lunedì mattina, la squadra di vendita s'incontra nell'ufficio per pianificare le attività della settimana.
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Ho abbattuto quest'orso circa dieci anni fa a Beluga. I tre Golden Retriever sono i miei migliori amici.
Ho abbattuto quest'orso circa dieci anni fa a Beluga. I tre Golden Retriever sono i miei migliori amici.
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I cani da slitta? Wow, non so nemmeno da dove iniziare. Come per i cavalli, è iniziato tutto come un semplice hobby. La famiglia Willis teneva cani da slitta già da anni e all’inizio per me erano un po’ un sostituto dei cavalli.

Ho sempre amato gli animali. Sono cresciuta in un appartamento dove potevamo tenere solo due gatti. Quando avevo circa 16 anni abbiamo traslocato in una casa ed è arrivato il primo cane, un Golden Retriver.

Ovviamente i cani da slitta non sono come i cani domestici, sono dei «cani da lavoro».  Sono tenuti da generazioni come cani da tiro educati per lavorare.

Era semplicemente fantastico uscire con i cani e percorrere 30 o 40 miglia :)

Sono una persona a cui piace muoversi e adoro le sfide. Per questo non volevo tenere i cani solo come passatempo e ho iniziato abbastanza in fretta a partecipare a piccole gare da 200 o 300 miglia. Mi sono creata una squadra di circa 20 cani, più tardi sono loro che mi hanno permesso di partecipare all’Iditarod. Per la preparazione ci sono voluti sette anni in tutto. Ho allevato tutti i cani da sola e li allenavo insieme a mio marito.

Uscire con i cani da slitta ti permette di vivere tante sensazioni. È avventuroso e a volte anche pericoloso, ci sono diverse cose che possono andare storte. Poi, nella natura è facile perdersi. Gli alci aggressivi possono attaccare i cani, ferirli o addirittura ucciderli. E ovviamente fa molto freddo, non di rado ci sono -30 e -40 gradi. Da novembre a gennaio i giorni sono molto corti, c’è luce dalle 10 alle 15. In queste condizioni è molto duro allenarsi, se si deve iniziare alle otto di mattina e continuare fino alle sei di sera.

Ma ne vale proprio la pena! A partire da febbraio e marzo i giorni si allungano e, negli anni normali, la neve è ideale e le temperature sono piacevoli (da -10 a -20). In queste condizioni, non posso immaginarmi niente di più bello che uscire con 12 cani da slitta allenati al meglio per fare una corsa. Il silenzio del paesaggio è solo infranto dal respiro dei cani. Solo a pensarci mi viene la pelle d’oca. Spesso, quando si esce di notte, si possono ammirare le aurore boreali.

E poi c’è anche la sfida personale di partecipare a una gara: non una gara qualsiasi, ma la leggendaria Iditarod! 1000 miglia è una distanza impressionante: a seconda del tempo e delle condizioni del tracciato, il vincitore ci mette circa nove giorni. Riuscire a concludere la gara è il grande premio per il duro lavoro svolto.

Io ci ho messo 10 giorni. Sul sito www.iditarod.com trovi tutti i dettagli (nell’archivio mi trovi come Silvia Willis nel 2007 e nel 2008).

Il 2007 è stato il mio «rookie year», rookie è qualcuno che partecipa per la prima volta a una gara. Ogni giorno era una nuova avventura e come rookie non si sa mai cosa aspettarsi. Le condizioni meteo erano abbastanza buone, tuttavia è stato uno degli anni più freddi. Molti partecipanti (cani e persone) hanno dovuto battersi contro il congelamento. Quando sono arrivata al traguardo, il mio visto era tutto gonfio. Avevo anche una brutta infezione alla mano sinistra. A un punto di controllo mi sono dovuta fare operare d’urgenza. Un infermiere (non era medico), che lavorava come volontario durante la gara, aveva con sé una piccola borsa di pronto soccorso.

A lungo andare, questo stile di vita si è ripercosso sul nostro matrimonio. Andy e io ci siamo separati poco dopo. Dalla natura selvatica mi sono trasferita in città dove conduco una vita «civilizzata».

Mi divertivo molto con i cani da slitta e le gare mi mancano. Ma è anche molto impegnativo avere degli animali. Non potevamo andare in vacanza perché bisognava occuparsi di loro ogni giorno. Quando non ci allenavamo d'estate perché era troppo caldo, era la stagione alta nel lodge.

Ora lavoro per K&L Distributors come responsabile del Beer Sales Team e ho sei collaboratori.

Cosa fai esattamente?

K&L Distributors Inc. è un rappresentante di bevande alcoliche in Alaska. Sono responsabile della vendita di birra a circa 80 negozi ad Anchorage, Wasilla e Palmer.  

Probabilmente questa informazione è più di quello che ti serve, ma spero ti permetta di farti un’idea più completa della mia vita.

Cosa ti manca della Svizzera?

Mi mancano tante cose. Rispetto all’Alaska, il sistema svizzero dei trasporti pubblici è imbattibile. La grande superfice dell'Alaska rende il trasporto pubblico troppo costoso. Mi mancano anche i sentieri. L’Alaska offre tanta natura e montagne, ma spesso sono zone troppo isolate e pericolose a causa degli animali selvatici. Essendo svizzera sono abituata al buon cioccolato. Ogni volta che rientro in Svizzera carico le valigie di cioccolata prima di tornare a casa in Alaska.

Confronto spesso l’Alaska con la Svizzera e mi chiedo dove vorrei trascorrere il resto della mia vita. Devo forse ritornare in Svizzera per essere vicina alla mia famiglia? Dove sono migliori le condizioni economiche e il sistema sanitario? Mi pongo tante domande di questo tipo. Il percorso per trovare una risposta «giusta» è lungo. Entrambi i paesi (USA e Svizzera) hanno lati positivi e negativi. Non è facile fare un confronto.

Negli Stati Uniti ho più facilità a realizzare la mia libertà personale e i miei sogni. E quando scrivo «USA» intendo l’Alaska. Non potrei mai vivere in una metropoli come New York, Los Angeles o Chicago. L’Alaska assomiglia alla Svizzera, qui mi piacciono soprattutto le montagne.

Ho l’impressione che in Svizzera ci siano troppe regole, lo Stato prescrive troppo. Il paese è piccolo e densamente popolato, quando ci vado mi vengono quasi degli attacchi claustrofobici.

Come ti mantieni in contatto con amici e parenti in Svizzera?

Curo i contatti quasi solo tramite Facebook, mi piace molto usare questo social. È bello vedere cosa fanno oggi i miei ex compagni di scuola. Senza Facebook non ne avrei idea. Grazie a «Hangout» sono regolarmente in contatto con i miei fratelli e sorelle e con mio padre. Ogni due mesi circa ci diamo appuntamento online domenica mattina.

Vivo negli USA da 17 anni e, nonostante non sia tutto perfetto, qui posso realizzare i miei sogni personali più facilmente. Non so bene come esprimermi meglio, mi mancano le parole giuste.
In Svizzera la mia vita era tutta pianificata: andare a scuola, terminare il tirocinio, trovare un posto, lavorare per il resto della vita e risparmiare per il pensionamento.

Anche la situazione politica ed economica mi preoccupa di più in Europa che in America. Ma tutto il mondo sta subendo importanti cambiamenti e ne siamo toccati ovunque, indipendentemente da dove viviamo.

In Alaska dipendiamo dalle risorse naturali, attualmente abbiamo un deficit statale enorme di diversi miliardi. Siamo tutti molto preoccupati e il futuro è incerto. Però anche in Europa la situazione non è rosea. Per questo, è un bene che la Svizzera non sia mai entrata a far parte dell’UE. Così è un po’ protetta dalle influenze negative sul piano economico. Ma resta un paese europeo circondato da stati UE e influenzato da loro.

Non ho lasciato la Svizzera perché non mi piacesse viverci. Ho avuto l’opportunità di ampliare i miei orizzonti e ho colto l’occasione. Sono fiera delle mie origini, amo il mio paese natale e mi piace molto tornarci. Alla fine di ogni soggiorno in Svizzera sono però felice di «tornare a casa», di rientrare in Alaska.
Ho abbattuto quest'orso circa dieci anni fa a Beluga. I tre Golden Retriever sono i miei migliori amici.
Ho abbattuto quest'orso circa dieci anni fa a Beluga. I tre Golden Retriever sono i miei migliori amici.
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Gli Hostettler

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Christine Hostettler ha imparato a preparare il formaggio in Paraguay.
Christine Hostettler ha imparato a preparare il formaggio in Paraguay.
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Per loro è stato come un viaggio nel passato. Christine e Hans Hostettler sono emigrati nel cuore della foresta vergine paraguayana, dove non ci sono strade, elettricità né acqua corrente. Col tempo sono però riusciti a ritagliarsi uno spazio per vivere da ecologisti puri e duri.

“Se vogliamo tornare in Svizzera? No!”, risponde senza esitazione Christine. “Qui abbiamo una libertà e delle possibilità creative che in Svizzera non avremmo mai potuto immaginare”.

Una libertà di cui hanno fatto ampiamente uso: hanno fondato un’associazione per la protezione della natura, un programma di ecoturismo e una fattoria biologica che hanno chiamato ‘New Gambach’, in omaggio al loro villaggio natio. È tra queste mura che ci accolgono e condividono con noi il cibo e il ricordo di 36 anni come cittadini della ‘Quinta Svizzera’.

Ci parlano della nostalgia di famiglia e amici, della cultura elvetica, con la sua organizzazione e formalità. “Però ora la nostra casa è qui”, dicono. Un focolare che hanno costruito con le loro mani a Alto Vera, Itapúa, vicino al Parco nazionale San Rafael.

Un impegno pericoloso

Questa vicinanza significa molto. La storia degli Hostettler va di pari passo con quella della difesa dell’ultimo bastione della Foresta atlantica in Paraguay, uno degli ecosistemi più ricchi del pianeta, ma anche uno dei più minacciati.

E quando si parla di pericoli, Christine torna immediatamente a quella domenica del 2008: “C’era una partita di calcio. Ero sola in casa e ho sentito dei rumori all’esterno. Sono uscita e mi sono ritrovata faccia a faccia con una persona che portava un passamontagna e mi puntava un revolver 38mm”.

Christine non sa se è stata la sorte oppure il fatto che l’assalitore non ha mirato bene, sta di fatto che la pallottola è partita senza toccarla. Anche Hans è rimasto indenne quando degli sconosciuti hanno sparato sul suo aereo, mentre sorvolava le foreste alla ricerca di coltivazioni, incendi o disboscamenti illeciti.

“Pensavano che uccidendoci, la lotta sarebbe finita. Sanno che ora siamo in molti”, afferma trionfante la padrona di casa.

Il freddo dell’Oberland bernese

Ma torniamo al punto di partenza della loro avventura, alla fine degli anni Settanta. La vita della famiglia Hostettler scorre tranquillamente a Gambach, nell’Oberland bernese. Troppo tranquillamente. E così quando emerge la possibilità di acquistare delle terre dall’altra parte dell’Atlantico, la coppia si dice: “proviamoci!”.

Col sostegno della famiglia comprano 250 ettari nel Nuovo mondo, che per loro è certo un mondo nuovo, ma “piuttosto arcaico”. “Era come se fossimo tornati indietro di 50 anni”, scherza Christine evocando il paradiso inospitale nel quale sono sbarcati, dove non esiste la minima infrastruttura. In Svizzera bisognava lottare contro il freddo e la monotonia, ma almeno non mancavano agio e sicurezza.

Christine sbarca con la figlia maggiore Brigitte tra le braccia. È il 1979. Hans era già emigrato sei mesi prima per spianare la strada, nel senso letterario del termine. L’ex marinaio ha dovuto sbarazzare la zona dagli alberi e dalle erbacce per costruire una casa in legno per la sua famiglia.

Molto abile con le mani, con gli anni Hans rinsalda la casa e vi porta l’elettricità costruendo una diga, il cui lago artificiale è poi diventato un biotopo. La sua destrezza gli permette di mantenere in funzione la mietitrice e di mettere assieme i pezzi dell’aereo ultraleggero ricevuto per posta.
Christine Hostettler ha imparato a preparare il formaggio in Paraguay.
Christine Hostettler ha imparato a preparare il formaggio in Paraguay.
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A bordo del piccolo velivolo "Lucy", Hans Hostettler sorvola la riserva naturale per scovare eventuali attività illegali.
A bordo del piccolo velivolo "Lucy", Hans Hostettler sorvola la riserva naturale per scovare eventuali attività illegali.
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Ma ‘Lucy’, il minuscolo velivolo, è arrivato solo nel 2005. Prima di allora la famiglia ha dovuto superare lo sconforto dei primi anni, quando le zanzare, l’umidità e i problemi di salute della piccola Brigitte li facevano sentire impotenti di fronte all’alto prezzo dell’esilio.

Ma parallelamente la fattoria portava i suoi frutti, o piuttosto il suo latte. Christine ha imparato a fare il formaggio (in Paraguay, non in Svizzera) e sono nati altri due figli, Teresa e Pedro. Le coltivazioni di soia biologico hanno reso bene e gli Hostettler si dedicano completamente alla difesa dell’ambiente.

Di fatto, il piccolo velivolo ‘Lucy’ - comprato col sostegno del WWF - è uno degli aiuti esterni ottenuti dall’associazione Pro Cosara, fondata nel 1997 su iniziativa della coppia con l’obiettivi di difendere questo santuario naturale. Malgrado la foresta sia stata dichiarata zona protetta nel 1922, alcune parcelle sono tuttora di proprietà di grandi latifondisti oppure vengono coltivate illegalmente da piccoli contadini.

Il governo non ha mai offerto loro un’alternativa, finanziaria e/o territoriale, e queste persone rifiutano dunque di lasciare la foresta, impedendo che questa diventi un vero e proprio ‘parco ecologico’. L’associazione Pro Cosara sta dunque cercando di comprare le parcelle a questi contadini e proprietari terrieri, in modo da proteggere i 73mila ettari dalla minaccia di colture estensive – principalmente soia e piantagioni illecite – e disboscamento illegale.

Un nuovo fronte

Christine e la sua squadra hanno lavorato senza sosta per consolidare l’associazione, che oggi può contare su un’importante rete internazionale di contatti. Realizza programmi di ricerca per repertoriare le specie della foresta e organizza attività di educazione ecologica.

Pro Cosara è sulla buona strada. Christine ne ha lasciato la direzione in febbraio, anche se continua a far parte del consiglio, ed ora si è lanciata in una nuova sfida: un progetto di ecoturismo. Di recente un gruppo di studenti statunitensi è venuto fin qui e ha repertoriato 70 specie diverse di uccelli.

Un vero paradiso. Ma anche i paesaggi del loro Oberland sono idilliaci. La decisione di emigrare era quella giusta? “La migliore”, risponde Christine. Oltre alla libertà, la coppia si rallegra della possibilità offerta ai loro figli di crescere a contatto e in armonia con la natura.

La Svizzera, sempre presente

La casa, la famiglia, la fattoria, le culture, l’impegno a favore dell’ambiente: tutto ciò basta a colmare una vita intensa. Ma il paese nel quale sono nati non ha mai smesso di essere presente.

Le loro due figlie vivono ormai in Svizzera e la coppia torna regolarmente. In Paraguay partecipano ad attività con altri compatrioti e Christine si è impegnata per cinque anni – in modo volontario – per far sì che i pensionati svizzeri nella regione continuassero a ricevere la pensione.

A quasi 40 anni dalla partenza, come vede oggi Christine il suo paese? “C’è stato un cambiamento radicale. Non è più la Svizzera dei miei ricordi. I nostri genitori hanno lavorato per molti anni a fianco di stranieri che avevano i loro diritti e non cercavano di imporre la loro cultura. Oggi mi sembra che la situazione sia diversa e temo che l’identità svizzera si stia perdendo”.

E cosa consiglia a chi vuole lasciare la Svizzera? “Che vadano a vivere tre mesi nel paese prescelto, prima di prendere una decisione definitiva. Ci sono persone che inviano tutte le loro cose prima di aver messo piede in un posto e che si rendono contro troppo tardi che non era ciò che si erano immaginati”.

Nonostante l’entusiasmo tipico della gioventù, gli Hostettler all’epoca non hanno preso tutto quando hanno lasciato la Svizzera. I loro mobili, ad esempio, sono rimasti a lungo nel loro villaggio natio. Di fatto, gli ultimi oggetti sono arrivati da poco. Christine e Hans sono certi emigrati, ma in un certo senso hanno sempre lasciato una porta aperta per il ritorno.
A bordo del piccolo velivolo "Lucy", Hans Hostettler sorvola la riserva naturale per scovare eventuali attività illegali.
A bordo del piccolo velivolo "Lucy", Hans Hostettler sorvola la riserva naturale per scovare eventuali attività illegali.
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Bruno Manser

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Bruno Manser col capotribù Penan Along Sega.
Bruno Manser col capotribù Penan Along Sega.
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«Il difensore della foresta pluviale Bruno Manser è scomparso!». Nel 2000 la notizia ha fatto il giro del mondo. L’ambientalista, ricercatore e difensore dei diritti umani di 46 anni è svanito nel nulla nella foresta tropicale del Borneo, dove viveva con i suoi amici, gli indigeni Penan. Lo stesso Bruno Manser era diventato un membro di questa antica tribù. Il suo impegno a favore degli indigeni minacciati e la sua onestà avevano suscitato ammirazione in tutto il mondo e lo svizzero è diventato uno degli ambientalisti più credibili del XX secolo. Un cittadino del mondo che viveva quello che diceva. E che prestava attenzione, quando altri invece distoglievano lo sguardo.

«Il grande interesse del governo malese e delle multinazionali del legno a zittire Bruno Manser è dimostrato», indicò alla fine del 2003 il Tribunale civile di Basilea nel procedimento per la dichiarazione di scomparsa. Bruno Manser, cresciuto a Basilea, amava la vita. Ma non a costo dell’ignoranza o della distruzione, e dello sfruttamento. E nemmeno a costo della società industriale in cui era cresciuto. Perché troppo spesso questa società vive a credito, sfruttando selvaggiamente le popolazioni indigene e la natura. Alla società dell’abbondanza, Bruno Manser contrapponeva il suo ascetismo: la sua vita era un cammino radicale verso la semplicità. Per questo motivo ha sempre ripudiato lo stile di vita moderno, ovunque ciò era possibile. Con intelligenza, creatività, ostinazione e umorismo.

Bruno Manser ha rinunciato agli studi per diventare mastro alpigiano e pastore di pecore. Sulle montagne ha trascorso undici anni. «Volevo acquisire le conoscenze su tutto quello che ci serve nella vita di tutti i giorni». Cercava un popolo di cacciatori-raccoglitori che viveva in modo rudimentale e con il quale avrebbe potuto applicare tutto ciò che aveva imparato. Nell’Europa meccanizzata, questo tipo di comunità non esisteva più.

Nel 1984 parte così alla volta dello stato malese del Sarawak, nel Borneo. Lì si addentra con coraggio nella foresta vergine per andare alla ricerca di quelle 300 famiglie di Penan, che ancora conducono un’esistenza nomade nel cuore della giungla.

I Penan accolgono il bizzarro straniero tra loro. Bruno Manser si separa da tutto quanto si è portato appresso: vestiti, farmacia di emergenza, dentifricio, scarpe. Miope, tiene però i suoi occhiali. Si autoimpone di camminare a piedi nudi malgrado i dolori iniziali, le ferite sempre aperte e le spine che deve estrarre col coltello. Impara a sopportare i dolori, perché chi vuole vivere nella giungla come i Penan deve accettare il dolore come una normalità. Il camminare a piedi nudi diventa un’abitudine, un atto di liberazione. Lui, l’uomo della modernità, non dipende più dalle scarpe. Una vittoria contro sé stesso!
Bruno Manser col capotribù Penan Along Sega.
Bruno Manser col capotribù Penan Along Sega.
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Bruno Manser e Martin Vosseler durante il loro sciopero della fame a Berna, 7 aprile 1993.
Bruno Manser e Martin Vosseler durante il loro sciopero della fame a Berna, 7 aprile 1993.
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Rapidamente si conquista un grande rispetto. Bruno Manser si adegua alla vita dei Penan senza compromessi. Il camminare a piedi scalzi, la nudità, la fame, l’umidità, gli insetti, le sanguisughe, ma pure le ulcere cutanee e la malaria, fanno parte del suo quotidiano. Alla fine, l’uomo con gli occhiali si muove nella giungla come un Penan, si fa strada con un machete, si riposa nella posizione raccolta dei nomadi, attraversa i fiumi in piena a nuoto e si costruisce un bivacco in cima agli alberi.

La vita semplice dei nomadi della foresta gli piace. È come se avesse ritrovato la famiglia che aveva in una vita precedente. Non vuole più ritornare in Svizzera, nella sua ristrettezza, i suoi gas di scarico e il suo rumore. Non vuole più far parte di quella gente che si allontana sempre più dalla vita naturale riducendo la biodiversità, che cerca tramite la tecnologia, i soldi e l’industria dello spettacolo di dare un senso alla vita. Una vita che rende però le persone sempre più smarrite e tristi.

No, lui vuole rimanere in questa tribù semplice e calorosa. Vuole soffrire, essere felice e approfittare della vita offerta dalla giungla assieme agli indigeni. E questo malgrado una malinconia latente: non della Svizzera, ma della famiglia e degli amici. Un dolore dell’anima che lo spinge a scrivere lettere e a mandare regolarmente registrazioni audio a casa, ma che non lo avrebbe mai costretto ad abbandonare di sua spontanea volontà la sua nuova famiglia nella giungla. Sì, è arrivato nel paradiso che si era immaginato! Nulla lo potrà allontanare da qui.

Per i Penan diventa così “uno di loro”, un “Laki Penan”. Anche Bruno Manser conosce ora la vita selvaggia: la pesca con la rete, la caccia agli orsi, alle scimmie, ai cinghiali, ai cervi e agli uccelli con una cerbottana a frecce avvelenate e una lancia, la raccolta di frutti selvatici e l’estrazione del sago dal cuore di palma. Impara la lingua, annota tutte le sue osservazioni e realizza innumerevoli documenti sulle persone, gli animali e le piante. Forse sta già presentendo la distruzione di questo immenso mondo fatto di acque cristalline, animali e piante.

In numerose zone, la foresta è infatti già stata distrutta dalle multinazionali del legno, con la benedizione di un governo che ignora i diritti fondiari e la situazione sempre più precaria degli indigeni che vivono dei frutti della giungla. Per i politici di Kuching, il capoluogo dello stato del Sarawak, la foresta tropicale è semplicemente un negozio in cui ci si può servire liberamente. Il legno duro e pregiato degli alberi giganti viene venduto per soddisfare le richieste di travi, mobili, yacht di lusso, infissi per finestre e scope di ogni sorta da parte dei consumatori dei paesi industrializzati.

Nemico pubblico no. 1

Quando si ode il primo rombo delle motoseghe, per Bruno Manser inizia l’espulsione dal paradiso terrestre. I Penan gli chiedono di aiutarli. Assieme agli indigeni, Bruno Manser erige delle barricate contro i bulldozer. Da un giorno all’altro diventa lo stratega della resistenza non violenta dei Penan contro quella civilizzazione a cui lui aveva voltato le spalle. Si batte contro le multinazionali e contro uno Stato che con concessioni e soldati sta distruggendo lo spazio vitale dei popoli della foresta. L’attivista diventa il nemico pubblico no. 1, l’uomo da ricercare e da abbattere.

Delle troupe televisive arrivano sul posto per filmare questo coraggioso difensore della foresta pluviale. Agli occhi della stampa internazionale, «il bianco selvaggio» è il portavoce dei Penan. Davanti alle telecamere è modesto, parla con tono pacato e con un linguaggio sincero. Improvvisamente, il mondo lo ascolta. Bruno Manser, l’architetto della resistenza, assurge a simbolo della ribellione contro la deforestazione della foresta tropicale.

«Allarmato dal fatto che l’habitat dei Penan veniva sacrificato per la produzione di legno a basso prezzo destinato al mercato internazionale, nel 1990 ho fatto ritorno in Svizzera affinché la loro voce - ‘Non costruite le vostre case con le nostre foreste’ - si facesse sentire nella nostra civilizzazione». Con il sostegno di Roger Graf, un difensore dei diritti umani, crea a Basilea il Fondo Bruno Manser, che si trasforma in una potente organizzazione a difesa della foresta pluviale. L’obiettivo principale: incitare i consumatori dei paesi industrializzati a rinunciare al legno tropicale.

Il Fondo insiste sulla simbiosi tra i popoli di cacciatori-raccoglitori e il loro spazio vitale: «Se la foresta muore, muoiono anche le persone». Con metodi dolci, ma principi inflessibili, presenta la situazione disperata dei Penan alle grandi istanze internazionali quali l’Unione europea, le Nazioni Unite e l’Organizzazione internazionale dei legni tropicali. In Svizzera, Bruno Manser vive in modo semplice, lavora senza sosta e viaggia parecchio. Al contempo continua a battersi a fianco dei Penan contro il massacro della foresta. Si radicalizza, consapevole che per gli indigeni il tempo stringe.

Le tracce si perdono

In Svizzera, Bruno Manser inizia uno strepitoso sciopero della fame per chiedere l’introduzione di un obbligo di dichiarazione del legno e dei suoi prodotti. Invano. «Chi è sazio non vuole capire gli affamati». La foresta del Sarawak continua a ridursi e gli animali vengono braccati. I Penan, una volta un popolo sano, si ritrovano nella miseria. Nel 1996, il 70% della foresta vergine è sparito. L’ambientalista fa allora conoscere le sue rivendicazioni attraverso azioni temerarie in Europa e nel Sarawak. Ma non succede nulla. Nel 2000, Bruno Manser ritorna nuovamente nel Borneo, prima di sparire per sempre.

È stato assassinato ed eliminato senza lasciare tracce? È la spiegazione più plausibile, sebbene finora non sia stata dimostrata più dell’ipotesi di un incidente o di un suicidio. La sua scomparsa rimane un mistero. Oggi, i famigliari e gli amici hanno smesso di aspettare un suo ritorno. Percepiscono però la sua presenza, nei loro cuori, nei loro pensieri. A volte hanno l’impressione di sentire la sua voce gagliarda dire: «Contano solo le azioni, anche le tue».
Bruno Manser e Martin Vosseler durante il loro sciopero della fame a Berna, 7 aprile 1993.
Bruno Manser e Martin Vosseler durante il loro sciopero della fame a Berna, 7 aprile 1993.
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Galleria - Uno studente svizzero a Shanghai

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Galieria - Una vita vissuta al massimo sulla costa del Kenya

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Hunting, fishing, and refreshing beer (Gallery)

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The Hostettlers and their Guarani jungle paradise (Gallery)

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Rainforest activist (Gallery)

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Finding fulfillment among the Tanzanian Masai

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  • Authors
    Marcela Aguila, Anand Chandrasekhar, Philipp Meier, Susan Misicka, Ruedi Suter

    Photographers
    Daniele Mattioli, Georgina Goodwin, Trent Grasse, Rodrigo Muñoz, Bruno Manser Fund

    Photo editors
    Christoph Balsiger, Thomas Kern, Ester Unterfinger

    Production
    Filipa Cordeiro, Devaprakash Giretheren, Kai Reusser, Luca Schüpbach, Felipe Schärer Diem

    Translators
    Simon Bradley, Susan Misicka, Jeannie Wurz

    Coordination
    Susan Misicka

    @swissinfo.ch

    Credits: Alfred Soland, Bruno Manser Fond , Bruno Manser Fonds, Daniele Mattioli, Georgina Goodwin, Keystone, Michele Novaga, Rodrigo Muñoz, SRF-SWI, SWI swissinfo.ch, Sandra Gysi, Trent Grasse

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